non c'è libertà senza passione!

Ph Teresa Mancini2013, Roma, Intervista

Ph Teresa Mancini 2013

Un mestieraccio quello del giornalista. Mediatore tra la notizia e il lettore o radio-telespettatore. Uno che valuta l’informazione ricevuta, la sua veridicità, la collocazione gerarchica tra le altre, eppoi la presenta all’opinione pubblica. E il lavoro testé descritto dovrebbe essere fatto in assoluta autonomia. Certo si può sbagliare, sottovalutare o amplificare, ma non con lo scopo recondito di favorire o colpire, aiutare od affossare. C’è poi il “commento”, ma questo è un altro discorso. Per Benedetto Croce il buon giornalista è colui che ogni giorno dà un dispiacere a qualcuno. Ma non sempre avviene così.

“In Italia il giornalista non si sente espressione dell’opinione pubblica ma portavoce della sua fazione. Attacca in nome della confraternita di cui fa parte ma non dirà mai una parola contro la sua confraternita.” Asserzione parecchio tosta fatta da un maestro del giornalismo italiano, Indro Montanelli. Colpa degli editori spuri padroni dei nostri giornali? C’è anche questo sicuramente. Ma c’è soprattuto una sorta di familismo amorale che porta il cronista nella valutazione della notizia a tener conto della propria famiglia ideologica o del piccolo o grande interesse da tutelare. Insomma più che un valutatore autonomo a volte ci si trova difronte ad un tifoso interessato. Malauguratamente l’egoismo di parte supera la sacralità della notizia. Attenzione, è essenziale precisare che nel nostro Paese ci sono tanti bravi giornalisti che fanno il loro mestiere come una missione, sacrificandosi e tentando di essere nei limiti del possibile obiettivi, lottando con direttori ed editori a difesa della neutralità del pezzo che scrivono.

Un’altra cosa, dicevamo prima, è “l’opinione”, il “commento”. La puoi pensare come vuoi e puoi esprimerti liberamente sempre però nel rispetto della deontologia professionale. Ma, appunto, una cosa è l’opinione, un’altra è la notizia e il lettore deve ben comprendere la differenza tra le due facce della stessa medaglia.

Da più parti si sostiene che la professione del giornalista stia cambiando. A noi non sembra. Cambia la tecnologia con cui misurarsi. E’ accelerata al massimo la velocità d’elaborazione della notizia. Il giornalista non è più il “cuciniere” unico ed assoluto, quasi sacro, dell’informazione e della sua divulgazione. Deve fare i conti con una miriade infinita di fonti divulgative – in particolare il web – che subissano il cittadino con non verificati ragguagli. Ma proprio per questi fatti, più che mai, c’è bisogno di professionisti preparati che sappiano mediare appunto tra la notizia e la gente. Nei prossimi giorni ci saranno le elezioni per il rinnovo dei vari consigli dell’Ordine dei giornalisti. C’è chi vorrebbe l’abolizione di questi organismi di difesa della deontologia professionale. Anche tra gli addetti ai lavori c’è chi ipotizza l’assorbimento dell’Ordine nel Sindacato. Insomma quella che passa per una casta formidabile è divisa, lacerata. L’idea immaginifica anglosassone del giornalismo raffigurato nel cane da guardia che controlla “i poteri” in Italia non regge. L’opinione pubblica ha una concezione dei giornalisti diversa, più vicina all’idea di Montanelli. Bisognerebbe partire da qui per provare a voltare pagina. Ed il cambiamento non può che salpare dall’Ordine e dal Sindacato. Non ci possono essere visioni divergenti ed opposte su problematiche non secondarie. L’autonomia deve essere enunciata e praticata. Una prassi necessaria ed opportuna dovrebbe prevedere, sia per l’Ordine che per il Sindacato, l’impossibilità di ricoprire lo stesso incarico dirigenziale per più di due mandati. Ed, ancora, la decadenza immediata da tutti gli incarichi una volta che si sceglie di candidarsi in politica. Da questo punto di vista è da tempo che le grandi organizzazioni sindacali, per evitare strumentalizzazioni, hanno inserito nei loro statuti le cosiddette “incompatibilità”. Ma c’è anche la necessità che restino iscritti all’Ordine solo quei giornalisti, professionisti e pubblicisti, che nei loro ambiti svolgono con continuità la loro attività professionale. Ne va delle credibilità di tutto il sistema dell’informazione. No, allora, alle tessere finalizzate alle campagne elettorali o a dare una professione a chi non l’ha.

Gli organismi di rappresentanza devono provare a riscrivere un “patto di lealtà” con l’opinione pubblica a tutela della libera informazione. E l’intesa non può, tra l’altro, non vertere sulla determinazione di colpire quei giornalisti che ciurlano nel manico, che non seguono le tante norme deontologiche – forse troppe e non coordinate tra loro – che autonomamente gli organismi di rappresentanza si sono date. Non basta cacciare dalla professione il giornalista che fa pubblicità a prodotti commerciali, proprio perché la sua funzione pubblica può creare confusione nell’utenza. E quelli che puntualmente fanno pubblicità di altro tipo e per giunta occulta? E, comunque, la sanzione deve essere quanto più immediata possibile. O il rinnovamento passa dall’autoriforma – vera, seria, condivisa – o il rischio è la cancellazione tout court.

di Elia Fiorillo