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Papa Francesco a Lampedusa

Immagine di mondoinformazione.com

Le combinazioni sono il sale della vita. Ai voglia a pianificare, il “caso” ti può scombinare tutto. Ma ti dà anche opportunità impensabili. La presentazione del libro di Lucia Tria, edito da Giuffrè, sui diritti civili e politici dei migranti era prevista da tempo. Non c’è calcolo, quindi, tra il viaggio di Papa Francesco a Lampedusa e, solo qualche giorno dopo, alla Corte di Cassazione il dibattito di lancio della pubblicazione. I relatori sono tutti giuristi con grande esperienza e responsabilità di ruolo, a partire dal primo presidente della Corte di Cassazione, Giorgio Santacroce. La materia è ardua perché vissuta dall’opinione pubblica come se si trattasse di una questione di occupazione illecita, con relativo esproprio, di beni, di spazi, di servizi, di proprietà altrui. Per non parlare poi del connubio indivisibile nell’immaginario comune tra i migranti e la delinquenza.

A Lampedusa papa Francesco ha voluto mettere il dito in una piaga dell’umanità che è, appunto, la migrazione. Ha parlato di globalizzazione dell’indifferenza e della cultura del benessere che ci fa vivere in bolle di sapone, ignorando gli altri, gli ultimi. Con grande forza ha gridato che quando si respingono profughi e immigrati non è forse Dio stesso a essere respinto da noi?  Solo prediche di un uomo di Dio, figlio di emigranti, che provoca le coscienze?

Capita che quando si ha la coda di paglia non si riflette troppo su quello che si dice. La rabbia di essere sconfessati è più forte della ragione di ammettere i propri errori. E, così, qualche politico italiano improvvido ha sbottato sulle parole di Papa Bergoglio sostenendo che una cosa “sono le prediche, un’altra è governare”. Ma per governare bisogna rispettare norme imperative che non possono tener conto solo dei diritti di alcuni. C’è bisogno, come ha affermato il presidente Santacroce, del “bilanciamento tra i diritti degli emigrati ed i diritti dei cittadini”. Insomma, ci deve essere sempre il rispetto della dignità di ogni persona, al di là delle condizioni in cui essa si può trovare.

Dal 1988, sulle frontiere dell’Europa, secondo i conti più o meno ufficiali delle morti di migranti, siamo a quota 18.653, di cui 2.352 soltanto nel corso del 2011. Dietro i numeri, tanti, ci sono donne, bambini, uomini in cerca di una vita migliore, più dignitosa. Ma quella cifra con molta probabilità non è veritiera. Tanti altri esseri umani non hanno avuto nemmeno la “fortuna” che le loro spoglie mortali fossero ritrovate. Certo, vanno condannati i tanti trafficanti di uomini che sfruttano la povertà degli altri, ma non basta. Finché non approcciamo la tematica in modo non difensivo, ideologico, con preconcetti a volte quasi razzisti, il problema si aggraverà sempre di più trasformandosi in un boomerang che torna indietro e colpisce chi l’ha lanciato.

Non è certo un caso che due giudici costituzionali nel loro intervento al Convegno sulla situazione giuridica dei migranti, il presidente emerito Francesco Amirante ed il giudice Giuseppe Tesauro, tocchino la questione economica nella problematica complessa, nella sua mutazione continua, dell’emigrazione. Guai, insomma, a loro avviso, a considerare l’economia l’unica componente della vita. Guai a “globalizzare l’economia” trascurando, sottovalutando una possibile universalizzazione, necessaria ed opportuna, dei diritti. Il linguaggio che usa il Papa e quello con cui si esprimono i giuristi è diverso. Più caldo, partecipato, immaginifico l’uno. Più crudo, senza voli pindarici, né suggestioni l’altro. Ma la sostanza è la stessa. Così avanti non si può andare.

La ricetta che l’autrice del testo lancia in campo per svoltare, per affrontare in modo diverso il tema, è quella di superare gli ostacoli della prevenzione verso gli immigrati con la “formazione” dell’opinione pubblica. Ma anche di “fare parlare l’Europa con una sola voce, per quanto riguarda l’emigrazione”. Le sovranità nazionali, scollegate tra loro, difronte alle migrazioni possono fare ben poco.

In questi anni uno dei deficit della politica italiana, non solo in fatto d’immigrazione, è stata l’idea, spesso sotto la prepotente spinta della contrapposizione elettorale, che certe questioni si potessero risolvere con i metodi duri: carcere, inasprimento delle pene, proclami di inaudita ferocia verbale. Tutto sbagliato. Com’è sbagliato mettere da parte i diritti umani perché, in situazioni di crisi, non ce li possiamo permettere. Il governo Letta dovrebbe rivedere la legge Bossi-Fini, con un occhio attento allo spirito della normativa precedente, quella che portava la firma di Turco-Napolitano. Ma la politica non può tollerare, né permettersi, da qualsiasi parti vengano, “battute” (sic!) come quella pronunciata dal vice presidente del senato Calderoli nei confronti del ministro per l’integrazione, Cecile Kyenge. Tanto di cappello alla signora Cecile che con grande garbo e buon senso, nel rispondere all’esponente della Lega, ha dichiarato: Le parole di Calderoli non le prendo come un’offesa personale, ma mi rattristano per l’immagine che diamo dell’Italia. Credo che tutte le forze politiche debbano riflettere sull’uso che fanno della comunicazione. Si, ha proprio ragione il ministro, di comunicazione si può anche… far morire.

di Elia Fiorillo