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Giorgio Napolitano Totò Riina e Leoluca Bagarella avevano chiesto di poter partecipare all’audizione del capo dello Stato. L’Avvocatura si era opposta. I Pubblici ministeri lo ritenevano possibile. La Corte ha dato ragione all’Avvocatura.

E ci mancava anche questa, avrà pensato Giorgio Napolitano nell’apprendere della richiesta di Totò Riina e Leoluca Bagarella di poter partecipare Foto_Napolitano da quirinale_itall’audizione del capo dello Stato al processo sulla presunta trattativa Stato-mafia. L’Avvocatura dello Stato si era opposta alla presenza dei due boss mafiosi alla deposizione. I Pubblici ministeri del processo invece lo ritenevano possibile. La Corte ha dato ragione all’Avvocatura. “L’interpretazione della norma sulla deposizione del capo dello Stato nel senso di una esclusione della presenza degli imputati – sostiene la Corte – non appare in contrasto con alcuna disposizione costituzionale o sovranazionale sul diritto di difesa”. “Il diritto di difesa – spiegano i giudici – è adeguatamente assicurato dall’assistenza tecnica dei difensori che lo esercitano in forza di un potere di rappresentanza legale”. Comunque, il chiacchiericcio mediatico continuerà penalizzando Napolitano, con tutto quello che questo comporta.

C’è voluta una sentenza della Corte Costituzionale per far distruggere le conversazioni telefoniche tra l’ex vice presidente del CSM, ministro dell’Interno e presidente del Senato, Nicola Mancino, e Napolitano, dichiarate comunque dai giudici “irrilevanti” ai fini degli approfondimenti giudiziari sulla trattativa. Quelle intercettazioni non potevano essere fatte. La loro eliminazione si è trascinata dietro, in una fetta dell’opinione pubblica meno informata, un senso di sfiducia nelle istituzioni che a loro avviso, comunque, tutelano i potenti e puniscono al solito i cittadini comuni.

Il presidente della Repubblica deporrà il 28 di ottobre su fatti che già ha dichiarato di non conoscere quando ha risposto alla richiesta dei giudici di Palermo. Dovrà riferire sulla lettera inviatagli da Loris D’Ambrosio, deceduto nel luglio del 2012, in cui il consigliere giuridico del Quirinale riferiva i timori sorti dopo le polemiche per le telefonate intercettate fra lui e Nicola Mancino. Napolitano non si è sottratto all’audizione. Resta il tema, quanto mai attuale, di come salvaguardare le alte cariche dello stato da provvedimenti che si possono trasformare in boomerang per la credibilità delle istituzioni, fermo rimanendo la necessità che tutti, ma proprio tutti, siano uguali davanti alla legge.

Sono tanti i magistrati che svolgono il proprio lavoro in silenzio, dedicando la propria esistenza al “Servizio” della giustizia, non ritenendosi assolutamente dei giustizieri. Altri, invece, non hanno minimi dubbi sull’opportunità e giustezza delle loro prese di posizioni. Sono talmente sicuri di essere nel giusto, e di avere tutti contro, che utilizzano in particolare i media per enfatizzare i loro convincimenti in modo che la “mediaticità” sia un antidoto alla voglia d’insabbiamento che, a loro avviso, i “potenti” hanno sempre e comunque intenzione di esercitare. E’ ovvio che anche la stampa ha le sue responsabilità quando – al di là dei tanti (troppi) codici deontologici – si presta ad operazioni di supporto interessato. “I giudici parlano solo attraverso le sentenze” sostiene la maggior parte dei magistrati avvicinati dai giornalisti. Il magistrato, in particolare il PM, non è il protagonista del processo, quando lo diventa c’è qualcosa che non funziona e con molta probabilità quello che dovrebbe essere “un giusto processo” diventa “ingiusto” perché il giudice non è più terzo, ma primo attore di tesi che nemmeno difronte a fatti incontrovertibili è disposto a cambiare. Il processo a Enzo Tortora è il caso emblematico di malagiustizia da tenere sempre a mente.

Il nuovissimo Consiglio superiore della magistratura, al di là dell’assoluta autonomia che i giudici devono avere, dovrà occuparsi con più efficacia propositiva e punitiva su protagonismi fuorvianti e delegittimanti per tutta la categoria. E norme restrittive vanno imposte ai magistrati che decidono di abbandonare la toga e scendere – o salire – in politica. Nella fattispecie da un giorno all’altro non si può cambiare abito.

di Elia Fiorillo